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In Nuova Zelanda per l’ Aotearoa Tour: impressioni a caldo dopo l’arrivo

Tour
Aotearoa:
600 ciclisti, 3.000 chilometri e circa 33.000 metri di dislivello
positivo da percorrere in bici in massimo 30 giorni, da Cape Reinga a
Bluff. Numeri accattivanti, per gli amanti della Cabala!
 
Aotearoa è
il nome Māori
della
Nuova Zelanda (
praticamente agli antipodi dell’Italia), che è
stata attraversata per tutta la sua lunghezza con una partenza
collettiva (in sei ondate da circa 100 partenti ciascuna), toccando
da Nord a Sud gli estremi geografici di quel Paese.
La scelta dei due
luoghi è legata anche alla spiritualità e alle leggende degli
antichi abitanti delle isole, che anticamente si insediarono
approdando proprio a Cape Reinga.
L’evento
biennale, brevetto in modalità bikepacking, non è una gara –
l’organizzazione aveva, infatti, stabilito che non si potesse
percorrere in meno di dieci giorni, pena la squalifica – ma molti
lo hanno affrontato come tale, cercando di coprire la considerevole
distanza nel più breve tempo possibile (per la cronaca, mi risulta
che il più veloce abbia impiegato 10 giorni e 1 secondo).

 

La
tag-line
del Tour Aotearoa – New
Zealand 3000Km bikepacking odyssey

– riassume perciò l’essenza di ciò che i partecipanti hanno
dovuto affrontare: attraversare un intero Paese, in autosufficienza,
sopportando il meteo talvolta avverso e tutti gli imprevisti del
caso incluse le sirene!
Non necessariamente le mitologiche
tentatrici di Ulisse, bensì ciò che poteva allettare uno stanco e
sporco ciclista, vale a dire un pasto caldo, abbigliamento pulito e
asciutto, un letto confortevole.
Data
questa premessa, sarebbe arduo descrivere puntualmente la mia
esperienza nella terra dei Māori – tra Tour e vacanze trascorsa
praticamente sempre in sella alla mia MTB – senza richiedere al
lettore di ricorrere a tutta la sua pazienza, avuto riguardo ai
frenetici tempi di Internet.
Per la cronaca e le impressioni a caldo
ho, però, tenuto grazie a Monica una sorta di diario fotografico
sulla sulla pagina facebook di Viaggi & Delizie, che vi invito a consultare con l’hashtag #Aotearoa; troverete anche una mia breve intervista fatta pochi giorni prima della mia partenza.
Ora,
però, veniamo a noi! Nel momento in cui mi appresto a scrivere
queste righe, tutti i partecipanti sono giunti da tempo a Stirling
Point
(o si sono ritirati): posso perciò far fluire nuovamente le
emozioni e i pensieri, adeguatamente sedimentati in questo periodo di
tempo che mi ha visto tornare ai ritmi lavorativi e alle abitudini
italiane, che avevo quasi dimenticato durante il mio “vagabondaggio
regolamentato
”. Questi ultimi due termini, in effetti, nonostante
sembrino contraddirsi, negli eventi bikepacking sono strettamente
correlati tra loro, tenuto conto che il tracciato è prestabilito ma
che lo si può percorrere attingendo a risorse che stupirebbero
Huckelberry Finn.
Il mio ricovero notturno più comune sono stati i
cortili delle scuole pubbliche, la mia cena più prelibata gli
spaghetti in scatola della Heinz, la compagnia più gradita il terso
cielo notturno, in cui la Croce del Sud più che indicare la
direzione da seguire, è servita ad evocare le avventure narrate da
Salgari.
ntendiamoci, non voglio dipingere la mia pedalata più ep
ica di quanto non lo sia
effettivamente stata, benché sia fiero di me stesso per come l
ho portata a termine.
Tuttavia, estraniarsi dai condizionamenti quotidiani per
un periodo più o meno lungo, per
me si rivela terapeutico. La mia cura poteva essere una veleggi
ata d
altura (si badi bene,
parlo di un
ntendiamoci, non voglio dipingere la mia pedalata più ep
ica di quanto non lo sia
effettivamente stata, benché sia fiero di me stesso per come l
ho portata a termine.
Tuttavia, estraniarsi dai condizionamenti quotidiani per
un periodo più o meno lungo, per
me si rivela terapeutico. La mia cura poteva essere una veleggi
ata d
altura (si badi bene,
parlo di un

 

attività in cui la barca a vela è il fine, non il
attività in cui la barca a vela è il fine, non il
Intendiamoci, non voglio dipingere la mia pedalata più epica di quanto
non lo sia effettivamente stata, benché sia fiero di me stesso per come l’ho
portata a termine. Tuttavia, estraniarsi dai condizionamenti quotidiani per un
periodo più o meno lungo, per me si rivela terapeutico. La mia cura poteva
essere una veleggiata d’altura (si badi bene, parlo di un’attività in cui la barca
a vela è il fine, non il mezzo per raggiungere un luogo), ma da un paio d’anni
a questa parte lo è diventata anche la bici, fuori strada e
possibilmente anche fuori dagli itinerari turistici e lontano dalla
folla. Per chi però, come me, è affetto dalla sindrome di Ulisse
(quello che gira che ti rigira, alla fine a casa torna sempre!)
vivere queste esperienze è come praticare bungee
jumping
: per
quanto emozionante, c’è sempre qualcosa che mi trattiene, che
impedisce all’esperienza di diventare totalizzante.
Il
primo pensiero che mi torna alla mente (a parte il disappunto di
quando, appena partito, ho danneggiato la catena a causa
dell’impiastro di sabbia e acqua salmastra sulla Ninety Miles Beach
e ho dovuto affrontare i 100Km di spiaggia in single
speed
) è
«Sono venuto
qui per questo»
,
mentre attraversavo il Whanganui National Park, dove persino i
pionieri reduci dalla
Grande Guerra dovettero desistere dall’impiantare delle fattorie, a
causa dell’ostilità della rigogliosa natura circostante.
Nonostante i tracciati ed i sentieri in Nuova Zelanda siano curati
dal DOC (Department of Conservation), non si può sperare in sconti
di sorta a livello di difficoltà. Un gruppo di ciclisti di un’ondata
successiva alla mia, tanto per fare un esempio, è stato riportato
alla civiltà da un elicottero della protezione civile, dopo che una
delle ricorrenti alluvioni che ci hanno accompagnato lungo il tour
aveva portato via strade e ponti, tuttora in via di sistemazione,
grazie anche ai nuovi pionieri, tra cui i ragazzi della BlueDuck Station.
Date
le abbondanti piogge di cui abbiamo goduto (nonché un paio di
cicloni tropicali fuori rotta, tra cui il famigerato Gita), il suono
più familiare avvertito in Nuova Zelanda è stato, per me, quello
dell’acqua scrosciante, sia essa piovana, dei torrenti o delle
cascate che si formano ovunque. E del sapore di quell’acqua, mista
a salsedine sulla spiaggia, a terra sulle strade carrarecce, pura
quando raccolta da una cascata per dissetarmi. E sorridevo, al
pensiero
dell’italiano che è il primo consumatore in Europa di acqua in
bottiglia (il quale, in buona sostanza, compra la bottiglia, dato
l’irrisorio costo dell’acqua alla sorgente). Insomma, l’italiano
è il primo acquirente di bottiglie in plastica.
Nonostante
la bassa densità abitativa sulle due isole, è difficile non notare
ovunque segni di antropizzazione. In questo, i neozelandesi hanno
ereditato in pieno la spudoratezza dei propri ascendenti europei,
benché abbiano cominciato a costituire parchi naturali e riserve sin
dagli albori della colonizzazione intensiva, dalla seconda metà del
XIX secolo.
Tuttavia,
la natura ancora prevale sull’uomo, non soltanto quando si
manifesta con violenti eventi atmosferici: la giornata in cui ho
pedalato sulla South Island partendo da Haast, con un cielo terso
dopo la tempesta del giorno precedente, mi ha riempito gli occhi e il
cuore con le numerose cascate, i laghi Wanaka e Hawea, seguendo poi
il corso del fiume Clutha fino alla
graziosa cittadina turistica di Wanaka, omonima del lago, dove ho
goduto di uno splendido tramonto.
La cosa sorprendente è che la
Highway 6 (da noi, le “autostrade” neozelandesi le classificheremmo come
strade extraurbane secondarie, ma sono gestite dal Governo centrale e
costituiscono una rete di trasporti strategica) è stata aperta nel
suo tratto più meridionale solo nel 1965 ed asfaltata completamente
nel 1995.
A partire dall’800, comunque, c’era una rete di
traghetti, ora
soppressa, che collegava con finalità commerciali (e talvolta già
turistiche!) le principali
località sulle sponde dei due laghi. La manutenzione e la
sorveglianza, oggi affidata ad operai in jeep, era in precedenza
compito di semplici “stradini” che, armati di pala e piccone, si
muovevano in moto provvedendo alle riparazioni urgenti nei circa 25Km
di tracciato loro affidati. Il più famoso di essi era “Makarora
Jack
”, soprannome di John Hendry Lange, diventato un’icona
dell’impegno che profondono i neozelandesi nel convivere con la
possente natura locale. Mi vergognavo, al pensiero delle nostre case
cantoniere abbandonate e della vegetazione che invade le carreggiate,
mentre in Nuova Zelanda la manutenzione è costante anche se molto
onerosa e non sempre tempestiva, proprio a causa dei ricorrenti
fenomeni atmosferici di forte intensità.

 

 

Non
c’è stato un momento in cui in Nuova Zelanda non mi sia sentito
come a casa, molto più che se fossi stato nel Regno Unito,
praticamente dietro casa. Forse anche per questo motivo – oltre che
per la natura e per la posizione strategica tra Oceano Pacifico e
Indiano, che rende poco costosi viaggi per noi estremamente esotici,
come alle Fiji o in Polinesia – gli europei presenti sono molti,
così come pure i nordamericani, mentre altre nazionalità che
gradirebbero immigrare hanno rigide
restrizioni sul numero di visti concessi. Si tratta spesso di giovani
al di sotto dei trent’anni che usufruiscono del Working
Holiday Visa

(un visto per un anno di lavoro che, chi vuole, può alternare alle
vacanze, analogamente a quanto avviene anche in Australia). Sembra
che sia facile trovare lavoro nel turismo o nel settore primario (ho
conosciuto una ragazza che lavorava in una fattoria di alpaca,
introdotti per la lana al pari delle pecore merino),
meno per chi cerca di immigrare da adulto: sono poche le
professionalità ritenute utili all’economia locale e questo
protezionismo è legato anche al ristretto mercato in cui la Nuova
Zelanda può commercializzare i propri prodotti. Tuttavia, ci sono
delle eccellenze come ad esempio la fabbrica di abbigliamento da
ciclismo Ground Effect o il negozio di outdoor Macpac.
In
tutta onestà, non saprei se consigliare di visitare la Nuova
Zelanda: quello che ho amato io sono state le zone semideserte, la
natura, la solitudine che mi ha accompagnato a lungo negli itinerari
off road
. I tratti percorsi in bici sulle strade asfaltate, sono
stati spesso al cardiopalma a causa del traffico veicolare intenso;
gli automobilisti killer sono molto più rari che
in Italia, ma comunque presenti. Non pensiate perciò che il
cicloturismo convenzionale offra soluzioni miracolose! Per non
parlare poi del turista medio, che frequenta gli affollati ostelli o
aree campeggio, si muove in bus o noleggia un veicolo. Faccio un
breve cenno ad una
esperienza eccezionale, analoga al Tour Aotearoa ma altrettanto non
alla portata di chiunque: si tratta del Te Araroa,
la traversata a piedi della Nuova Zelanda, passando per zone dove è
talvolta necessario anche avere buone capacità tecniche, oltre che
resistenza e spirito di adattamento. Insomma, pensate bene a cosa
cercate, prima di imbarcarvi sull’aereo.

 

A
questo punto, chi non ha intenzione di intraprendere un viaggio in
Nuova Zelanda, potrebbe anche interrompere la lettura e soffermarsi
solo sulle foto, per gettare uno sguardo oltre un paio di oceani.
Tutti gli altri, invece, soprattutto i più curiosi di conoscere come è andata l’esperienza completa, dovranno aspettare l’uscita del prossimo articolo su questo blog per trovare spunti utili nell’organizzazione di un viaggio con la mia stessa meta!

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