Eccoci di nuovo a leggere le avventure del nostro amico Mauro, che questa volta ci porta in giro per il centro Italia, giorno per giorno, con la sua inseparabile bicicletta per un avventuroso Italy Coast to Coast.
Attraversare l’Italia dal Tirreno all’Adriatico, in bici, non è certo una novità, visti i precedenti nel campo agonistico o anche semplicemente escursionistico. Eppure, vi possiamo trovare qualcosa di diverso da quello che ci si potrebbe aspettare, perché ciò che ci attrae non è semplicemente il “cosa”, ma soprattutto il “come”. Così, nel settembre 2018, ho inforcato la mia ben collaudata MTB front e, per la terza volta in tre anni, mi sono avviato alla partenza dell’Italy Coast to Coast, trail unsupported che ho affrontato in modalità bikepacking.
Nel 2016 e nel 2017 questo evento prendeva il via da Montalto Marina (VT) per terminare a San Benedetto del Tronto (AP), passando per l’Umbria, regione di cui è originario l’organizzatore, Fabio Lucantoni. Lo scorso anno, invece, c’è stata una rivoluzione sia nella lunghezza che nella durezza del tracciato. Scorrendo il roadbook, vediamo che si parte da Orbetello (GR), si passa per il viterbese lambendo il lago di Bolsena, si taglia l’Umbria turistica ma anche montuosa, il vero “cuore d’Italia”, poi si torna nel Lazio, nel reatino su e giù per il Terminillo, per poi arrivare finalmente in Abruzzo, dove si segue una parte del “Wolf’s Lair” (itinerario scenografico, ma anche tecnico e duro) a cui Fabio ha saputo aggiungere tratti che mi hanno fatto ardentemente desiderare un bel gelato sul lungomare di Vasto Marina (CH). Tutto per un totale di 640 Km e 16.000 D+.
Detta così, sembra una sgambata, ma… dimenticatevi quelle cavalcate epiche a cui ci hanno abituato molti trail, anche lunghi. Qui, non è solo questione di distanza e dislivello: è anche il fondo che fa la differenza, con numerosi tratti di portage o in cui la bici va spinta a mano – il tanto temuto bike walking, che spesso usiamo noi italiani per trasporre l’hike a bike – o, ancora, passaggi in cui la traccia va seguita rigorosamente sul GPS, perché non ci sono sentieri, né altri riferimenti.
Nel 2019 l’evento è programmato per il 21 settembre, con una traccia simile a quella del 2018 e che ho avuto il privilegio di provare in anteprima, non potendo partecipare alla partenza ufficiale. Non faccio anticipazioni: ci sono già fin troppe rivelazioni in questo articolo… e una delle caratteristiche migliori dei trail, è proprio quella di scoprire il percorso da soli.
La sera prima della partenza
Non è il primo trail a cui partecipo, Lazio Trail e Tuscany Trail per citarne un paio, così i volti noti cominciano a essere più di qualcuno e la cena della sera prima della partenza diventa una rimpatriata con dei vecchi amici. Una volta arrivato in treno a Orbetello raggiungo facilmente il ristorante “I pescatori”, di fronte al quale trovo Fabio e dove veniamo raggiunti da altri partenti, per concederci una bella mangiata – è sempre meglio incamerare qualche caloria in più, magari anche alimentata da un vino bianco frizzante – inframmezzata dai racconti di mitiche pedalate e qualche consiglio su come affrontare il tracciato. Ammetto che ascoltare Fabio non sia particolarmente indicativo, perché se da una parte scoraggia, invitandoci a restare coi piedi per terra nel pianificare le tappe del percorso, dall’altra ci rincuora lasciandoci intendere che alcuni punti saranno facili da oltrepassare. Per quella notte sfrutto l’ospitalità di Paolo, il quale ha saggiamente
prenotato un albergo, che purtroppo abbiamo scoperto essere situato in un punto rumoroso del paese. L’invadenza della civiltà urbana mi fa desiderare di trovarmi presto nel mio sacco a pelo, nel silenzio e nella solitudine.
PRIMO GIORNO, sabato 22/09 (Orbetello – Amelia, 186Km e 3.000m D+)
Partenza alle 8.30, ma per qualcuno anche poco prima o poco dopo… diciamo una partenza alla francese, agevolata dal fatto che di fronte al cartellone dell’Italy Coast to Coast siamo stati, complessivamente, una quindicina di ciclisti e l’atmosfera si è rivelata – come non sempre accade – amichevole e rilassata.
A pochi chilometri dalla partenza, superata la parte costiera pianeggiante dell’Argentario (dove comunque ci sono tratti sabbiosi, in pineta), si comincia con i classici saliscendi tra i quali possiamo dapprima scorgere Capalbio in lontananza, per poi godere dello splendido castello di Vulci.
Da lì, ci si approssima alla Selva del Lamone, attraversando la quale il caldo si fa sentire e non ci sono grandi opportunità di rifornirsi di acqua. Quest’ultimo, in effetti, è un problema di cui eravamo coscienti e ci era stato consigliato di averne al seguito almeno un litro. I primi 90Km mi richiedono più energie di quante non ne volessi spendere, visto che mangio poco a causa del caldo e devo gradualmente riadattarmi a stare in sella, tenuto conto della mia completa inattività nei dieci giorni successivi all’arrivo al Lazio Trail.
A Latera, sosta canonica al bar Pit Stop (tappa fissa in tutte e tre le edizioni) e poi via verso i paesi collinari – Gradoli, Grotte di Castro addobbato a festa e San Lorenzo Nuovo – che cingono il Lago di Bolsena offrendo una splendida vista.
La tappa successiva è a Bagnoregio, a 135 Km, dove mangio e mi approvvigiono anche per l’indomani, prevedendo difficoltà a rifornirmi di domenica. Un bel single track in discesa, anche se su terra smossa e un po’ esposto, mi fa ritrovare all’inseguimento di quattro mucche che, in piena strada provinciale, per un bel tratto non si rassegnano né a entrare nei campi che la costeggiano, né a farsi superare. L’imbrunire arriva prima di quanto pensassi: l’equinozio è imminente e così pure l’autunno, benché le alte temperature non ce lo lascerebbero presagire.
Il successivo rifornimento di acqua lo faccio nel paese di Alviano, molto suggestivo grazie al castello da fiaba perfettamente illuminato e alla vivace piazza, che ospita numerose persone che si godono il fresco della sera.
Il tratto successivo è una sorpresa, negativa: una bella salita su fondo smosso dove, con i miei copertoni di sezione ridotta e la bici pesante, devo smontare e spingere fin troppo a lungo, in qualche tratto anche in discesa, per non prendere inutili rischi sulle pietre illuminate solo dalla mia luce frontale, potente più che a sufficienza ma che mi induce comunque alla prudenza.
A sentire Fabio, una volta raggiunta Amelia (intorno a mezzanotte), che a 185Km è il primo check point, sarebbe stato facile giungere fino a Stroncone, ove fare tappa e attendere l’indomani per confrontarsi con le prime vere difficoltà del trail. Ovviamente, non è stato così! In piazza incontro Alfonso e, dopo un veloce gelato, decidiamo di trovare un posto dove riposare.
SECONDO GIORNO domenica 23/09 (Amelia – Rifugio Castiglioni di Cantalice, 105Km e 3.350m D+)
Il giardino di una casa disabitata ci offre un confortevole riparo, che Alfonso lascia prima di me. Dico sempre che voglio attenermi alla regola aurea delle sei ore di stop completo ogni 24 ore di trail, per garantire al fisico il giusto riposo (scelta saggia soprattutto per gli eventi molto lunghi), ma la realtà è che nel sacco a pelo e sul materassino me la godo proprio!
Nonostante ciò, prima o poi devo alzarmi e intorno alle 6,30 sono di nuovo in sella, sfidando la bruma del mattino diretto a Stifone e alla ciclabile che costeggia le gole del Nera. Il tragitto, effettivamente, non è poi così duro, grazie anche al sonno ristoratore.
Tuttavia, la mitica Narni è presto in vista e, dopo di essa, ci si addentra nel cuore geografico d’Italia, Ponte Cardona, attraverso un bosco in cui il maltempo ha lasciato vari danni, tra cui alcuni alberi caduti da scavalcare.
Al “facilmente raggiungibile” paese di Stroncone non arrivo che all’ora di pranzo, dove ritrovo Alfonso – già con le gambe sotto al tavolo – e vengo raggiunto da un’altra decina di ciclisti, tutti intenti a cercare ristoro. La ripartenza non è facile: le ripide rampe lungo il cammino francescano rovinano la digestione e mettono di malumore, benché siano solo l’aperitivo di ciò che ci aspetta poco più avanti. Fino ai Prati di Stroncone saremo in una zona montagnosa, in cui i tratti in salita da fare a spinta saranno numerosi. Il premio? Una vista spettacolare sulla valle del Nera e verso il Terminillo, che incute rispetto già da lì.
Rapida sosta a Campigliano, dove resisto alla tentazione di un lauto panino con la porchetta alla macelleria-braceria Michela … consapevole che, di lì a poco, avrei cominciato la scalata verso Cantalice. Giunto al centro abitato, dopo aver inizialmente pensato a un errore nella lettura della traccia, mi rassegno presto a caricare la bici in spalla per affrontare la ripida e stretta scalinata che mi conduce verso l’uscita dal paese e la montagna.
Già carico di cibo, mi rifornisco di acqua fresca, prendendone in abbondanza anche per la notte. Molti inorridiranno a sentire quanto viaggio carico, ma mi è capitato di restare senza acqua e viveri e preferisco di gran lunga averne in abbondanza, benché ne debba pagare dazio nelle scalate.
Per terminare la giornata avevo pianificato di dormire a quota 1.820m al rifugio Sebastiani, il quale, benché chiuso, avrebbe offerto comunque un discreto riparo notturno. Lungo il tragitto però, noto che il rifugio libero Castiglioni è aperto e con ampia scorta di legna da ardere. Nonostante fossero le 20,30 circa, quindi molto presto, mi faccio incantare dalla sistemazione e decido di godermi la “serata libera” davanti al caminetto, con la compagnia dei campanacci delle mucche che pascolano nei dintorni.
TERZO GIORNO lunedì 24/09 (Rifugio Castiglioni – Santo Stefano di Sessanio, 130Km e 4.200m D+)
Messa la sveglia sempre di buon’ora, devo combattere con me stesso per uscire dal tepore del sacco a pelo. La foschia, che mi accoglie all’esterno del rifugio inumidendomi, rende spettrale un bosco nel quale la luce di un pallido sole faticherà a filtrare anche a un’ora più tarda.
Il fondo smosso sul quale mi avventuro, mi fa considerare saggia la scelta di essermi fermato al Castiglioni, anche se dopo pochi chilometri – sulle piste da sci – si entra su asfalto e la salita ai 1.895m della sella di Leonessa diventa più rapida, seguendo i tornanti che, visti dall’alto, acquisiscono con il loro sviluppo geometrico un innaturale fascino. Alle 9,30 raggiungo la “cima Coppi” del trail, già pregustando la discesa fino a Micigliano.
Nei pressi del rifugio Sebastiani scambio qualche parola con un numeroso gruppo di escursionisti, con indosso abbigliamento pesante, i quali avranno pensato che quel matto in maglietta e pantaloni corti dovesse aver sbagliato stagione. Purtroppo, la discesa su asfalto è molto breve: preso dall’entusiasmo, avevo dimenticato che ci si avventura per diversi chilometri su fondo altamente instabile, composto da pietrisco e sassi, dove solo buona sorte e doti di equilibrismo consentono di restare in sella.
Una volta giunto in paese, faccio una lauta colazione nel bar in piazza, uscendo dal quale incontro un gruppo in sella a MTB ed e-bike che, interrogatomi sulla salita al Sebastiani, pur non restando soddisfatto dalla mia sconsolata descrizione, non rinuncia alla scalata.
L’ora di pranzo mi vede valicare il confine tra le provincie di Rieti e L’Aquila, sul tranquillo asfalto del fondovalle che, da Rocca di Fondi, mi conduce verso nuove impegnative salite.
Si tratta del secondo muro della giornata: la salita a Monte Calvo, nel comune di Sella di Corno. Tanto è dura e lenta la salita su pietrisco, quanto è bello il panorama abruzzese e, in un momento di commozione, immagino che spettacolo saranno le verdi valli, una volta ricoperte di candida neve.
Prima di affrontare l’impegnativa discesa verso Scoppito, mi concedo qualche momento di ristoro seduto sul fontanile che si trova quasi in vetta, di fronte al maestoso panorama e attorniato da una mandria di bovini al pascolo. Mentre termino di mangiare, vengo raggiunto da Paolo e Mario, che dopo un breve saluto proseguono di gran carriera.
Fa sicuramente piacere incontrare gli amici di cammino, ma più è duro il trail, più preferisco viverlo da solo, trovare in me stesso le energie per andare avanti ed eventualmente vincere i momenti di sconforto. È quella piccola sfida fisica e mentale che, tutto sommato, mi rende più facilmente superabili anche le difficoltà che si incontrano quotidianamente lontano dalla bici.
La discesa al fondo valle su pietrisco instabile non è facile, ma comunque abbastanza veloce. I chilometri di asfalto scorrono via speditamente, nonostante il traffico dei veicoli a motore su strade non abbastanza larghe mi faccia spesso battere il cuore. Superata alle porte dell’Aquila l’area archeologica dell’antica città di Amiternum, punto di inizio del noto “Wolf’s lair”, si torna nuovamente su sterrato fino a San Vittorino, secondo check point, dove mi fermo a riprendere fiato e vengo raggiunto dai ragazzi che più spesso ho incontrato nei primi giorni di trail, vale a dire Paolo, Mario, Maurizio e Fabrizio. Ripartiamo quasi insieme, ma con intenti diversi: loro, dopo Collebrincioni, Camarda e Filetto optano per un ristorante; io, sempre carico come un asino (ma proprio per questo libero di scegliere), proseguo attraverso i saliscendi del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga fino a Santo Stefano di Sessanio, dove giungo alle 22,30 passate e, nel paese vuoto e quasi spettrale, mangio qualcosa e dispiego il mio bivy di fianco a una chiesa, situata vicino al laghetto omonimo di quella località.
QUARTO GIORNO martedì 25/09 (Santo Stefano di Sessanio – Monte Melo, 155Km e 4.100m D+)
La notte, ventosa e con temperature in picchiata rispetto ai giorni precedenti, non è troppo confortevole. Al mattino, perciò, mi sveglio ben prima dell’alba e alle 5,30 comincio già ad aggirarmi per le vie del paese, per poi riprendere la strada in salita verso Rocca Calascio.
Arrivo al famoso castello alle prime luci dell’alba, nel medesimo momento in cui il lupo e l’aquila del film “Lady Hawk” (di cui la rocca costituisce una delle location) riescono a intravedersi. Forse influenzato da quella pellicola, trovo il posto di un romanticismo struggente… ma mi commuovo anche per la veloce discesa su asfalto, un ricco regalo che mi fa rilassare per qualche minuto, in attesa di tornare sulle pietraie abruzzesi di colle Sparviero. Noto con disappunto che dei già pochi fontanili disseminati lungo il percorso, solo pochissimi danno acqua. Probabilmente, l’estate siccitosa ha ridotto alcune sorgenti, costringendomi a caricare più acqua di quanto non avrei voluto.
Tra le altre sorprese, vengo circondato in due diverse occasioni (di cui una in piena notte) da cinque pastori maremmani, di guardia alle greggi. L’idiosincrasia dei cani in generale, e di questa razza in particolare, per i ciclisti, ha del misterioso. Fortunatamente, mostrarmi deciso e fare la voce grossa mi ha consentito in entrambi le circostanze di uscire indenne dall’incontro con questi animali.
Uscito dallo sterrato, mi aspettano alcuni chilometri sull’asfalto della piana di fonte Vetica, sferzata da un forte vento gelido che non ero preparato ad affrontare e che spesso mi sbilancia, sfavorito dalle borse da bikepacking che fanno effetto vela. Giusto il tempo di una rapida occhiata alla pietraia, location del secondo film su “Trinità” e di una visita alla vicina statua dello scultore Micheletti, dedicata alle vittime di quelle montagne, che mi trovo di fronte al ristoro Mucciante, ancora chiuso al momento del mio passaggio. Meglio così, penso, o non ne sarei uscito a cuor leggero per tornare nel gelo!
Dopo poco, ci si addentra di nuovo nella natura selvaggia, verso il cuore del monte Meta e del Voltigno. Qui, ci vuole pazienza e spirito di adattamento, per attraversare dapprima i fangosi sentieri nei boschi, pieni di rami spezzati e alberi caduti, poi per superare un impervio e ripido passaggio nella boscaglia e infine a cielo aperto, seguendo solo la traccia che appare sul GPS.
Tutto è di una bellezza disarmante; cavalli e bovini al pascolo che mi circondano sullo sfondo del fitto bosco, punteggiato qua e là da masi e rifugi, probabilmente sempre chiusi.
È allo stesso tempo un sollievo e una delusione, quando torno sulla strada carrozzabile che dall’agriturismo Voltigno (chiuso anch’esso) conduce a Brittoli, poi a Pescosansonesco Vecchio e Musellaro, fino al Ponte di Salle, che sovrasta una profonda gola attraversata dal fiume Orta, la quale non sfigurerebbe in un film western.
Il resto del tragitto, nonostante il dislivello che continua ad aumentare, è abbastanza scorrevole e oltrepassa numerosi paesi, deserti a causa del vento freddo che non accenna a calare. Tocco da Casauria, Sant’Eufemia a Maiella con i suoi murales e il “Risiko!” più grande del Mondo, con la suggestiva Roccacaramanico in lontananza e la Maiella che veglia dall’alto su di essi.
Fortunatamente, non dovrò arrivare così lontano: il passo San Leonardo, a soli 1.300m di quota, costituisce il punto di valico verso il terzo check point, Campo di Giove, che se d’estate è una vivace e graziosa località turistica, fuori stagione è già alle otto di sera l’ennesimo paese deserto che non offre altro che acqua per rifornire le borracce.
Data l’ora, non posso che proseguire: salto un paio di pizzerie aperte, avendo ancora da mangiare e non volendo indulgere in lussi e proseguo verso l’ultimo tratto del trail. Il tragitto è scorrevole, ma non troppo agevole: le strade sono costellate di crateri e il maltempo (di quanti anni fa, non saprei dire) ha causato smottamenti di terra e fatto crollare alberi, lentamente in via di rimozione. L’incertezza su ciò che avrei trovato proseguendo, unita al freddo penetrante, mi induce a pernottare a monte Melo, a circa 1.500m di quota, in una specie di fienile/magazzino che però non può essere chiuso e non offre un gran riparo dal vento, sempre incessante. Faccio una abbondante cena, poi mi corico con la solita attrezzatura su due bancali sistemati a mo’ di letto, per isolarmi dal
terreno.
QUINTO GIORNO mercoledì 26/09 (Monte Melo – Vasto Marina, 95Km e 1.800m D+)
Ammetto di non aver sofferto il freddo, grazie al bivy e all’abbigliamento da pioggia, che hanno aumentato il comfort del sacco a pelo. Tuttavia, al mattino è stata durissima rimettermi in marcia, soprattutto quando ho scoperto che la traccia passava in mezzo al bosco, poi in mezzo al centro residenziale di Valle del Sole (attraverso campi da calcio, tennis, a momenti pure i giardini privati…) e di nuovo ai boschi di monte la Croce, anziché lungo la vicina strada asfaltata.
Il problema, però, è che il tempo che ho passato cercando di uscire da questo intrico di rovi, alberi e pascoli per i cavalli, me lo sarei potuto risparmiare!!! Per qualche ragione, in questo punto la traccia era sfalsata di circa 200 metri rispetto alla cartografia. Una volta a casa ho ricontrollato e, in effetti, se avessi studiato il percorso me ne sarei accorto. Invece, ne sono diventato consapevole solo quando ero in bilico su di una pendenza assurda in mezzo al bosco, dal quale ho visto i tornanti che portano a Pizzoferrato, esattamente paralleli al percorso seguito da me.
Un po’ di improperi (a me stesso, non a Fabio) e di acrobazie dopo, riesco a raggiungere la Provinciale e a riguadagnare un po’ di serenità, dopo circa tre ore e mezza di calvario per percorrere una manciata di chilometri. Confesso che, dopo i posti impervi in cui la traccia mi aveva già fatto passare, in prima battuta non avevo avuto il dubbio di essere fuori strada. Anzi, l’ho ritenuto l’ultimo “regalo” di Fabio Lucantoni, prima di giungere fino all’arrivo sull’asfalto che ci era stato promesso. Tutto sommato, i luoghi che ho visto mi hanno conquistato, così come pure il familiarizzare con alcuni cavalli al pascolo. Inoltre, non nego di essere stato comunque soddisfatto di me per essere uscito da una situazione difficile (benché mi ci fossi messo da solo ed erroneamente…).
Il resto della giornata non è trascorso via veloce, un po’ per la stanchezza accumulata, un po’ anche perché in questi ultimi chilometri le rampe ripide (e non tutte su asfalto) erano ancora numerose.
Dei paesi attraversati, tutti graziosi e con una spettacolare vista sulla valle del Sangro (Rosello, Roio, Monteferrante, Guilmi, Carpineto, Monteodorisio), voglio ricordare soprattutto il primo, Borrello, per l’interessante incontro che vi ho fatto.
Vi descrivo la scena: un cane legato con una catena lunga, mi abbaiava. Sono smontato da bici per passare, quando ne è sbucato un altro, il quale si è avvicinato mansueto e zoppicante e mi ha annusato. Subito dopo, vedendo che poteva fidarsi, ha abbaiato all’altro cane, che ancora non si era placato, come a voler intercedere per me! Una scena surreale, ma vera. L’ho sempre detto che c’è da avere più fiducia negli animali, che negli uomini.
Nonostante i chilometri e il dislivello, per le 16,00 sono arrivato a Vasto Marina, stanco e soddisfatto, anche se con il piccolo rammarico di non essere rimasto nelle 96 ore di trail, termine che mi ero prefissato. La stagione estiva ormai in chiusura, unita all’ora tarda, non mi hanno consentito di festeggiare l’arrivo con un bel pranzo a base di pesce, come avrei gradito. Ho così ripiegato su birra e pizza, per poi dirigermi a Vasto, dove ho preso una stanza di albergo in attesa di ripartire per Roma, l’indomani, col treno.
Riflessioni finali
Per quanto riguarda me: il meteo favorevole ha aiutato, altrimenti sarebbe stato impossibile completare l’Italy Coast to Coast in pochi giorni, se ci fossero stati sentieri fangosi, rocce rese scivolose dalla pioggia. Senza contare, inoltre, la prudenza che la combinazione di questi fattori avrebbe suscitato.
Sotto l’aspetto guasti sono stato molto fortunato, poiché l’unico problema è stata la rottura di un raggio della ruota posteriore (ho dei cerchi in alluminio che ne hanno 32, più pesanti ma affidabili, alla prova dei fatti), la quale ha però retto egregiamente fino a casa e senza che me ne accorgessi. Probabilmente la rottura sarà stata causata da qualche ramo, incastratosi nei boschi o nei passaggi più impervi.
Per quanto concerne il trail: non ho avuto la sensazione che, nel lavoro di tracciatura, sia stata seguita l’equazione per cui la somma di tanti chilometri e un grande dislivello danno luogo a un bel percorso, anzi. Se da un lato si è evitata la sovrapposizione ad altri trail che avrebbero toccato le stesse zone dei precedenti ICtoC, dall’altro sembra ci sia stata una ricerca delle radici di questo sport, quando alla fine degli anni ’90 cominciarono le sfide sul tracciato della Great Divide MTB Route, nel Nord America. Credo, inoltre, che quest’ultimo concetto sia stato mediato dall’esperienza che Fabio ha personalmente maturato come partecipante ad eventi bikepacking molto selvaggi, in Italia e all’estero.
L’agonismo, per il numero di partecipanti e forse per scelta dell’organizzazione, non è finora spiccato. A chi piace fare baldoria, incontrare altri ciclisti a ogni bivio, sostare agevolmente in bed&breakfast e agriturismi, questo coast to coast non sembrerebbe proprio il più adatto. Se la sfida non fosse soprattutto con sé stessi, sarebbe molto difficile non cedere alla tentazione di un taglio del percorso, soprattutto quando le ore in sella si fanno tante, scende il buio della notte e ci si trova da soli tra sentieri deserti, boschi silenziosi e paesi vuoti in modo spettrale.
La pianificazione è importante, ma non è di per sé sufficiente a garantirci il rispetto dei programmi prefissati, come di passare la notte al coperto, magari con una doccia ristoratrice. Anche perché l’imprevisto, il guasto non riparabile, sono sempre in agguato e non è detto, poi, che sia possibile trovare accoglienza magari perché fuori stagione, o fuori orario. Il consiglio è avere almeno un
pasto di scorta e acqua in abbondanza, soprattutto nel tratto abruzzese.
Personalmente, viaggio carico (con tutti i limiti che ciò impone) perché preferisco che il momento in cui fermarmi sia una scelta, piuttosto che una necessità. È superfluo sottolineare che pedalare qualche ora dopo l’imbrunire può essere un modo interessante di vedere il tracciato, sotto la luce della Luna o solo quella dei propri fari, scorgendo castelli come da fiaba, avvistando animali notturni, udendo inaspettati rumori e versi, mentre ci si aggira per strade desolate.
Finora, non si sono cimentati sul percorso nomi altisonanti dell’universo bikepacking, tali da poter fornire uno stimolo alle iscrizioni di massa. Finché non sarà stabilito un tempo di riferimento del percorso, la maggior parte dei biker alla ICtoC saranno quei pochi romantici, degli inesperti, o quegli ambiziosi che commisurano un evento del genere al dislivello e alla distanza che possono coprire nella propria uscita domenicale, per quanto dura possa essere.
Esorto i futuri partecipanti a non lamentarsi della durezza del tracciato, che ho sperimentato personalmente. Casomai, occorre dedicare qualche minuto in più a valutarne le peculiarità, così da poterlo pedalare ciascuno secondo le proprie capacità e attitudini, interpretando in tal modo il pensiero di chi lo ha indetto, il cui intento principale è quello di farci incantare per la bellezza dei luoghi attraversati. Tentiamo gradualmente, quindi, di abbandonare la nostra “comfort zone”, sperimentiamo e soprattutto avviciniamoci a dei modi di vivere il bikepacking che potranno sicuramente aprirci nuovi orizzonti.